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La ghettizzazione architettonica

STORIA DEGLI ULTIMI E DEL LORO RISCATTO, DALLO STILE INCOMPIUTO ALLE SEDUTE PSICANALITICHE PER L’ARCHITETTURA.

A cura di Alice Corbo

Quante volte ci è capitato di interrompere in medias res la lettura di un libro non troppo stimolante? O di voltare la pagina del quotidiano avendo dato un’occhiata fugace solo ai titoli degli articoli? Quante volte ci siamo iscritti in palestra, per poi mollare a metà anno? E quante volte abbiamo lasciato, nel piatto, il “boccone della creanza”?

Comunemente noto come pigrizia o svogliatezza, accade a ogni essere umano, con più o meno frequenza, di abbandonarsi talvolta a quello status che, nella cultura cattolica, costituisce addirittura uno dei sette vizi capitali: l’accidia.

La casistica sinora riportata è imputabile, però, alla sola predisposizione d’animo di ciascuno, e il buon Dio non ce ne voglia se, ogni tanto, preferiamo rimanere a poltrire.

Soltanto al reverendo Michelangelo Buonarroti è concessa un’attenuante: il suo non-finito – la cui opera più emblematica è sicuramente la Pietà Rondanini – è pura spiritualità, è il tentativo dell’arte di sublimarsi e liberarsi di qualsiasi fisicità; Giulio Carlo Argan, a tal proposito, scrive: “Lo scultore non si serve del blocco per trarne un’immagine che manifesti un concetto; attraverso l’immagine, ma soprattutto attraverso il proprio lavoro, redime il blocco dalla sua inerzia di materia, e così facendo, compie un’esperienza ascetica, redime simbolicamente se stesso”.

Le cose si mettono diversamente, però, quando parliamo di Architettura.

L’Incompiuto, in architettura, non è mai dichiaratamente una scelta e, qualora lo fosse, non avrebbe alcun alibi per due semplici ragioni: dispendio economico ed impatto ambientale.

Gli inglesi sono soliti definire “white elephants” quelle grandi strutture i cui lavori sono rimasti interrotti per le più svariate e opinabili motivazioni (ma, chiaramente, si ricade sempre nella sfera economica) e che giacciono sul pianeta ormai obliate, offerte in sacrificio alla Natura, che spesso si rivela essere madre indulgente e non entità distruttiva nei confronti di questi feti morti adagiati sulla sua epidermide.

L’espressione “white elephants” trae origine da un’antica usanza dei monarchi del Siam – attuale Thailandia – di regalare ai propri cortigiani degli elefanti albini, considerati animali sacri e dunque inadoperabili per qualsiasi tipo di lavoro. Tuttavia, un elefante costituisce un peso gravoso per le finanze del suo possessore, ma è anche impensabile, d’altro canto, rifiutare un dono regio; morale della favola: gli elefanti albini mandavano in rovina i cortigiani, e i monarchi non potevano che essere ben consapevoli di ciò.  

Noi italiani, invece, in virtù delle nostre inoppugnabili costumanze cristiane, abbiamo coniato in gergo giornalistico una locuzione pressoché analoga per denominare gli incompiuti ammassi cementizi disseminati nel Paese: sono le nostre cattedrali nel deserto, i nostri luoghi di culto profanatori in un personalissimo Sahara di malapolitica e malavita.

La paternità della citazione soprariportata appartiene a Luigi Sturzo, il quale se ne servì per denotare mastodontici e onerosi cantieri che avevano prosciugato le tasche dello Stato senza poi adempiere ad alcuna finalità, senza mai essere entrati in funzione, senza aver mai ospitato utenza al loro interno, e dunque senza aver mai minimamente contribuito a un ritorno economico che potesse equiparare i costi di realizzazione. Per la maggiore, ai tempi di Luigi Sturzo, opere di questo genere caratterizzavano la Sicilia, che è anche la terra che ha dato i natali al progetto Incompiuto Siciliano, un’organizzazione no-profit fondata a Milano da Alterazioni Video, che nel 2019 festeggia il suo decimo compleanno e che, per l’occasione, grazie a un crowdfunding lanciato sulla piattaforma Kickstarter, ha pubblicato un volume edito da Humboldt books in cui sono catalogate tutte le cosiddette rovine contemporanee – che avrebbero mandato in visibilio personalità del calibro di John Ruskin e rispettivi seguaci –, delle quali più di un centinaio si contano proprio nell’antica Trinacria.

Tuttavia, la ricerca intrapresa dal collettivo milanese non è un’assoluta novità (per fortuna, qualcuno aveva già fiutato l’enormità del problema): all’Anagrafe delle opere pubbliche incompiute di interesse nazionale, già dal 2013 figurano oltre un migliaio tra edifici e infrastrutture senza futuro, ma i membri di Alterazioni Video ne hanno selezionate solo 696 tra i più “meritevoli” – quasi tutti al Sud. Nel loro libro compaiono testimonianze di un certo spessore: tra le altre, echeggiano reboanti le parole dell’antropologo francese Marc Augé e dell’archeologo Salvatore Settis, ad occupare posizioni antitetiche; se il primo riconosce di essere stato soggiogato dal fascino sublime di questi ruderi 2.0, il secondo, più razionale e critico, punta il dito contro le amministrazioni incompetenti.

Significative sono anche le dichiarazioni del sindaco di Palermo – città eletta Capitale italiana della cultura 2018 e che ha ospitato l’esposizione fotografica di Incompiuto sotto la direzione di Letizia Battaglia al Centro Internazionale di Fotografia della città; Leoluca Orlando sostiene che la lingua siciliana non conosce il futuro. Noi diciamo “io tra Io tra un anno vado a Roma”. Non “io andrò a Roma” ma “io vado a Roma”: non c’è il verbo futuro nel dialetto siciliano. C’è solo l’eterno presente. E chi vive l’eterno presente lascia le opere incompiute.

Il fotografo Gabriele Basilico, collaborando con Alterazioni Video e Fosbury Architecture, a partire dal 2007 ha documentato i suggestivi scenari dove i titani dell’architettura incompiuta fanno da protagonisti indiscussi, ed è riuscito nei suoi scatti a condensare la desolazione maestosa di viadotti senza meta e colossi di cemento aggrediti dalla vegetazione, celebrandoli come la quintessenza dell’arte contemporanea.

Nel tentativo di legittimare un’architettura apparentemente sans serif, che nega e afferma insieme i suoi stessi princìpi, si era già cimentato Ettore Sottsass nel decennio tra il 1970 e il 1980, con la collezione fotografica intitolata Metafore nel paesaggio in cui aveva immortalato architetture – da lui allestite con oggetti e materiali che negli stessi anni caratterizzeranno l’Arte Povera – tanto primordiali e germinali quanto paradossali, eppure a tal punto autentiche e naïf da esalare un senso di atavica comunione con la natura.

Ma il punto è: Incompiuto celebra davvero the birth of a style o è solo una sagace provocazione?

Pare sul serio che i suoi promotori siano fiduciosi nella possibilità che il loro lavoro possa emancipare quelle opere dimenticate a risorse per il territorio, ribaltando il punto di vista, avviando una corrente artistico-architettonica che tragga spunto e nutrimento dal dramma della situazione storica attuale, invece che proporne un superamento. Ma poiché la storia del mondo e dell’umanità, in una prospettiva stoica e nietzschiana, non può esimersi dalla ciclicità, Incompiuto non è da ritenersi un progetto poi così visionario; infatti, già nella seconda metà del Settecento c’era chi aveva tentato di fare arte convivendo con la crisi epocale piuttosto che opporsi ad essa e cercare una rifondazione, invitando a trascendere la forma mentis comune e a rendere, abilmente, opportunità ciò che viene concepito come negatività: era un matto di nome Giovan Battista Piranesi, il quale tradusse questa sua volontà in incisioni che ritraggono architetture impossibili, spazialità magniloquenti e angoscianti, rivelandone una bellezza fuori dai canoni del gusto Classico.

Ciononostante, non si può non riconoscere i meriti a chi ha visto, nell’architettura incompiuta della nostra epoca, un’opportunità, appunto.

«Dichiarata sana e rispedita nel mondo. Diagnosi finale: borderline recuperata. Che cosa voglia dire ancora non l’ho capito. Sono mai stata matta? Forse sì. O forse è matta la vita.»

Sono le battute finali del film Ragazze interrotte che, al termine del secolo scorso, portava alla ribalta l’adattamento cinematografico del diario di Susanna Kaysen, ricoverata per diciannove mesi, negli anni Sessanta, in un ospedale psichiatrico per il trattamento della depressione.

Come le “ragazze interrotte” interpretate nientedimeno che da Winona Ryder e Angelina Jolie, le “architetture interrotte” dei giorni nostri trovano un centro d’ascolto nel progetto Architecture of the Shame. Di cosa stiamo parlando? Da quando Matera è diventata patrimonio Unesco, compiendo poi un ineguagliabile salto di qualità da vergogna d’Italia a Capitale della cultura europea per l’anno in corso, in tanti si sono prodigati per consentire agli ultimi di riscattarsi; ci riferiamo proprio ad Architecture of the Shame, un gruppo di ricerca materano che si è costituito con il dichiarato intento di costruire una “seduta psicanalitica collettiva per l’architettura europea”, che dunque si è schierato con i più deboli – in accezione architettonica, se così si può dire – per garantire loro una rivalsa. È così che, attraverso la disamina di temi quali le periferie, le case popolari, i ghetti rurali, il team – formato da architetti ed altri esperti – indaga sulle potenzialità di quei manufatti architettonici che, in tutto il Vecchio continente, sono percepiti come brutture anche da un punto di vista culturale e sociale, e che invece, per dirla come direbbe Alessandro Borghese, sarebbero perfettamente in grado di “ribaltare il risultato”. Inoltre, iscrivendosi sul portale ufficiale, è possibile rendersi partecipativi e segnalare, attraverso un’azione di mapping, eventuali progetti che rispondono a quei requisiti incriminanti e aiutarli ad abbattere il muro dell’emarginazione oltre il quale sono confinati.

Nell’edilizia come nella quotidianità non possiamo dunque fingere che non esista un problema di ghettizzazione: sia che si tratti di opere incompiute o comunque di mala-architettura, occorre innanzitutto convenire che il problema c’è ed è visibile, tangibile, che si può chiudere un occhio o anche tutti e due, ma non ci si può accecare definitivamente; siamo, forse, alle soglie di una svolta epocale per guarire dalla cecità uno Stato che, ormai da almeno mezzo secolo, ha condannato l’architettura italiana ad essere relegata in un insondabile abisso?

A Matera, la prossima estate, con una serie di workshop, si proverà a trovare delle risposte o, quantomeno, a far luce sulle domande.

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