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L’articolo 2 e la dignità della persona

Si vive bene solo se si vive insieme. È questo il vero significato dell’articolo 2 della Costituzione. Che tra tutti, forse, è il più dimenticato. Schiacciato tra l’1 e il 3, tra la democrazia e l’uguaglianza, l’articolo 2 sembra condannato a vivere nell’ombra. E a leggerlo, pare quasi una tautologia. Una precisazione inutile, superflua. Mentre invece è la chiave di lettura attraverso la quale rileggere tutta l’Italia, per come l’avevano immaginata i Padri Costituenti.

All’apparenza, il numero 2 spende in effetti parole quasi scontate. «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». “E ci mancherebbe” risponderà qualunque lettore odierno. «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Alcuni potrebbero immaginare sia un modo sbrigativo per liquidare i diritti fondamentali, senza mettersi a enumerarli uno per uno. Soluzione che a conti fatti risparmia al Costituente un secchio d’inchiostro.

In realtà questo articolo vincola l’Italia a una precisa scelta di campo. Quello della società solida. Cioè della comunità in cui i legami personali contano. Non è una elucubrazione poetica: è una opzione politica in chiara antitesi coi modelli statali che il Paese aveva attraversato in passato. Non più uno Stato liberale, in cui a farla da padrone è l’individuo, l’atomo sociale, svincolato da tutti (e da tutto) e libero di fare ciò che vuole. Non più nemmeno lo Stato totalitario, arbitro della vita dei cittadini, dal quale tutto discende e al quale tutto è dovuto.

La rifondazione che l’Assemblea costituente volle garantire al nostro Paese passava attraverso la riaffermazione della natura sociale della nostra comunità. Non c’è più un individuo, ma una persona: non si vive più da soli, non si pretende da nessuno d’essere faber sui. Secondo il Costituente italiano, noi tutti siamo «destinati a completarsi e perfezionarsi a vicenda» (così scriveva Dossetti, nell’ordine del giorno del 9 settembre 1946 che fornì la traccia al lavoro della 1^ Sottocommissione dell’Assemblea).

È chiarissima la rottura con lo Stato liberale. Una rottura che oggi recupera un’attualità inedita. Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito a una profonda metamorfosi del paradigma socio-culturale. La rivoluzione liberale (inaugurata dalle politiche Reagan-Thatcher nell’Occidente) si fonda anche sulla comunicazione. E tra gli slogan di Maggie, inquilina per undici al numero dieci di Downing Street, c’è anche questo: «La società non esiste». Esistono solo gli individui.

Ognun per sé e Dio per tutti: questo è il paradigma dello Stato liberale. Uno Stato minimo, che non interviene nel mercato, che non interferisce con la vita delle persone, silenzioso, e si limita a governare la spada, la moneta (sic! oggi manco quello) e la bilancia della giustizia. Questo è il paradigma che il Costituente ha voluto respingere: l’Italia non vuole lo Stato minimo. Primo, perché è lo Stato minimo, e le condizioni di abbandono in cui versava la sua popolazione, ad aver generato il fascismo. Secondo, perché le persone sono destinate a essere felici soltanto le une con le altre. Non solo «come singole». Ma anche e soprattutto (o forse soltanto) «nelle formazioni sociali ove si svolga la [loro] personalità». La famiglia, la scuola, il posto di lavoro. Ma anche le associazioni, i partiti, tutte le comunità intermedie.

Descriveva molto bene Zygmunt Bauman, eminente sociologo contemporaneo, il dramma collettivo che sperimenta la società moderna. È stato Bauman a inventare la metafora della liquidità: il mondo di oggi è liquido, privo di appigli, un magma in cui i rapporti sociali si sono fusi e non sono più l’ancora alla quale aggrapparsi. Da persone regrediamo a individui, da ingranaggi dello stesso sistema regrediamo ad atomi che vagano nel vuoto.

Sotto certi aspetti vien voglia di rivalutare la maschera pirandelliana (l’etimologia di persona è proprio maschera): possiamo essere maschere solo in società. Perché solo all’interno dei rapporti sociali – quei rapporti sociali che garantiscono all’individuo la gioia della compagnia altrui – si sviluppano le diverse immagini che proiettiamo fuori di noi. (Peraltro un meccanismo che alcuni scienziati stanno dimostrando, se non innato, perlomeno connaturato alla maggioranza di noi). Se per essere felici servono le maschere, ben vengano le maschere.

Ben vengano le maschere degli individui che hanno legami, che hanno una storia, che hanno una cerchia di persone in cui realizzarsi. Quegli individui che smettono di essere individui: cioè che smettono di identificare la propria esistenza nella pura materialità, nei meccanismi perversi di un modello socio-economico basato sul consumismo. Non è un caso che in questa visione riecheggia anche Marx: il Marx che denunciava l’alienazione del lavoratore (schiavo della propria occupazione anziché entusiasta del proprio talento, schiavizzato dai quattro spiccioli del salario anziché felice con la propria famiglia). Dopotutto 219 costituenti su 556 sono socialcomunisti. Cioè marxisti.

Ma per essere felici con i propri cari, per essere felici all’interno di una società, non basta non essere soli. La pura libertà uccide perché isola, oppone, scava solchi e opprime. Ma la soluzione non sta nel contrario. L’articolo 2 (e l’ordine del giorno Dossetti) respingono anche «[la] visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli». Che era proprio la visione dello Stato fascista: una dittatura che identificava Nazione e popolo, (mono)cultura e società, partito (unico) e intelligencija.

Il fascio coincide proprio con l’idea che non esistono individui. L’individuo non ha una sfera di azione in cui è libero di fare ciò che vuole, della quale lo Stato si limita a tracciare il confine. Il suddito, l’italiano, il fascista (tre concetti che devono coincidere) può fare soltanto ciò che di giusto lo Stato (fascista) ha individuato per lui. E lo fa non per sviluppare la propria personalità: quindi non per affermarsi, per essere felice, per realizzarsi o per la propria cerchia di cari. Lo fa perché la morale di Stato (etico) glielo chiede. Lo fa perché i legami sociali che lo Stato fascista cristallizza e perpetua sono i legami, l’equilibrio di potere e di scambio culturale, che lo Stato fascista ha identificato come gli unici che hanno diritto di cittadinanza.

E non è un caso che lo Stato fascista respinge i residui di giusnaturalismo che ammantavano lo Stato liberale. Se uno Stato liberale fonda la minima dimensione dello Stato medesimo sul presupposto che gli uomini nascono con diritti naturali, diritti che nessuno può violare e che devono essere garantiti, lo Stato fascista deve negare tutto ciò per assicurare il massimo potere (l’arbitrio) dello Stato sulla società. Lo Stato fascista è uno stato giuspositivista: è uno Stato cioè che pretende di poter fare ciò che vuole. Perché l’unico diritto che esiste è quello positivo, cioè quello posto, deciso, stabilito dalla suprema autorità politica. Il diritto naturale, che esiste per Natura, che esiste perché Dio ha deciso così, è una mera arma retorica agli occhi del Duce.

Contro queste concezioni interviene il Costituente italiano. Che come al solito sintetizza al meglio le tradizioni liberaldemocratica, cristiano sociale e marxista dei suoi deputati. Si vive bene solo insieme: il legame sociale c’è, il legame sociale serve perché permette di costruire a ciascuno la propria felicità grazie anche alle attenzioni e alla solidarietà degli altri.

Lo Stato è «al servizio» della persona, della quale è riconosciuta la «precedenza» sullo Stato. Dossetti promulga nel suo o.d.g. un ritorno al giusnaturalismo. Ma un ritorno implicito, che esclude la necessità di postulare tutta la formulazione filosofica del giusnaturalismo: basta parlare di diritti naturali, andiamo al sodo. Andiamo cioè alla precedenza della persona sulla legge politica, alla superiorità della dignità umana sugli umori delle aule parlamentari.

E a questa nuova persona, che non è più suddita di uno Stato arbitrario ma cittadina di uno Stato democratico, e che non è più atomo vagante nella vita sociale ed economica del Paese ma titolare di diritti e doveri di solidarietà, bisogna garantire i «diritti inviolabili». Che sono, banalmente, gli strumenti con cui può materialmente costruire il suo posto nel mondo. Non solo tutte le libertà di cd. prima generazione (parola, pensiero, personale-fisica, religiosa, etc.), ma anche quelle di cd. seconda generazione (lavoro, istruzione, paga dignitosa, sciopero, etc.). E non solo.

Perché, come la Corte costituzionale ha giustamente affermato più volte, l’articolo 2 è una fattispecie aperta. Aperta all’evoluzione della società. Aperta all’introduzione di nuovi diritti e libertà. Aperta a tutti quegli sviluppi che possono contribuire ad arricchire la vita delle persone, a tutti quegli strumenti giuridici che permettano ai cittadini di realizzarsi nel nostro Paese. Con l’articolo 2 i Costituenti hanno affidato ai propri cittadini un grimaldello col quale scardinare la saracinesca dei diritti e intascare tutto quanto può essere utile a costruire il proprio futuro. Non si sono limitati a fotografare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.

Ed è per questo che l’articolo 2 è un collante fondamentale per l’1 e il 3. Non vi è (non vi può essere) democrazia senza aggregazione sociale, senza partecipazione collettiva, senza formazioni sociali in cui l’uomo possa vivere. E una democrazia basata sul lavoro, cioè sul contributo al progresso che ciascuno dà alla società (cfr. art. 4 Cost.), necessita di solidarietà economica, politica e sociale tra le persone. Se la libertà degli individui non deve risolversi in «libertà di morire di fame» (S. Pertini), allora c’è bisogno di giustizia sociale. C’è bisogno che lo Stato riconosca, incentivi e imponga il legame sociale, la responsabilità comune di prendersi cura gli uni degli altri, come singoli e come gruppi.

Se l’articolo 2 è una doppia dichiarazione di guerra, alla dittatura dell’individualismo e a quella del corporativismo, lo è perché presuppone che l’italiano possa partecipare alla vita politica del Paese in virtù e grazie al contributo materiale e spirituale che dà al Paese col proprio lavoro (il senso dell’art. 1 Cost.). Un contributo che merita un riconoscimento, che legittima la parità di trattamento tra tutti i cittadini, e perciò impone un serio impegno della comunità a rimuovere tutti quegli ingiusti ostacoli che opprimono la persona a dispetto del suo ruolo nello sviluppo della società (il glorioso messaggio dell’art. 3 Cost.). Ma il lavoratore, uguale tra tutti i lavoratori nella forma e nella sostanza, non può essere felice come atomo o come frazione di un tutto. Ha una sua personalità che va garantita: e a questo vasto programma adempie l’articolo 2. Quel fragilissimo filo che unisce uguaglianza e democrazia, libertà e giustizia sociale: la ratifica dell’importanza dei legami sociali, delle relazioni che presuppongono e rispettano la libertà di ciascuno e l’impegno di tutti a favore del prossimo. Forse più che in ogni altro articolo risplendono, assieme e concordi, l’insegnamento del Vangelo, il riscatto del sol dell’avvenire, la frontiera della libertà umana. Mai penna fu più significativa di quella di Dossetti.

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