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LE DUE AMERICHE DI LINA BO BARDI E FERNANDA PIVANO

A cura di Alice Corbo

DUE FIGURE FEMMINILI NEL SECOLO SCORSO SONO STATE IL PONTE CULTURALE TRA ITALIA E AMERICA: LINA BO BARDI – ARCHITETTA E DESIGNER DI SCUOLA ROMANA, NONCHÉ ALLIEVA DI PONTI PRESSO IL SUO STUDIO MILANESE – E FERNANDA PIVANO – LA GENOVESE “SORELLINA” DI DE ANDRÉ E STUDENTESSA DI PAVESE AL LICEO CLASSICO D’AZEGLIO DI TORINO. 

Queste due donne sono state pioniere di un ibridismo senza precedenti, di importazione ed esportazione intellettuale, rispettivamente sulla rotta dell’America Latina e degli Stati Uniti; quasi coetanee (la Bo Bardi più anziana di tre anni, nata nel 1914), entrambe hanno ritrovato oltreoceano quell’esprit de finesse conforme alle loro personalità poliedriche e alle loro spiccate sensibilità. 

Nonostante Lina sostenesse che “Il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente. Il tempo non è lineare, è un meraviglioso groviglio dove, in qualsiasi momento, possiamo scegliere punti e inventare soluzioni, senza inizio e senza fine”, è possibile tracciare un parallelismo cronologico tra la sua attività e quella di Nanda, due percorsi di vita intrisi di appassionata ricerca e di idee libertarie, in un’epoca in cui non era affatto semplice rivendicare autonomia di pensiero e di azione, soprattutto da parte di quello che ancora era popolarmente ritenuto “il sesso debole”. 

Eppure, Lina e Nanda si sono fatte largo tra cerchie di uomini, senza neanche troppo sgomitare, perché da subito seppero farsi conoscere e rispettare come donne e come professioniste, in grado di tenere testa a due ambiti lavorativi che erano appannaggio perlopiù della sfera maschile: architettura e letteratura.

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Nel ’46, Lina si trasferisce in Brasile con suo marito Pietro Maria Bardi – noto giornalista, critico e gallerista – e cinque anni dopo, completamente assorbita dalla vivace cultura carioca, prenderà la cittadinanza brasiliana e sancirà il definitivo radicamento a San Paolo con la realizzazione della sua residenza privata, la Casa De Vidro a Morumbi, una zona della città che negli anni ’50 non era stata ancora aggredita dalla spropositata urbanizzazione metropolitana. È, questa, una casa avvolta dal silenzio, un silenzio morigeratamente rotto solamente dal vocìo delle leggende popolari che i nativi – insediati nella fitta boscaglia tutt’attorno – si raccontano sommessamente, e che oggi è sede dell’Istituto Bardi. 

Esattamente dieci anni più tardi, nel 1956, Nanda compie la sua prima traversata atlantica, direzione Beat Generation; “Quando negli anni ’50 Fernanda Pivano si reca per la prima volta negli Stati Uniti è una giovane studiosa innamorata dell’America di quegli anni e desiderosa di incontrare dal vivo, sul campo, i maestri di una narrativa che in Italia si era appena cominciato a conoscere, grazie a Cesare Pavese ed Elio Vittorini. […] Dai guru della beat generation Ginsberg, Kerouac, Corso, Ferlinghetti, uomini che in nome di un’idea di ritorno all’essenzialità dell’Uomo, in contrasto con i pregiudizi del consumismo capitalistico, hanno vissuto e scritto senza distinguere fra arte e vita, a Don DeLillo e ai minimalisti. Un nuovo viaggio americano, insomma, fra le contraddizioni e le speranze segrete di quel grande, osannato e temuto paese che è, da sempre, l’America.” Così, in un’opera autobiografica, la Pivano descrive il suo approccio al Nuovo Continente, e al fianco di un compagno di vita eccentrico quale era Ettore Sottsass Jr., avvierà negli anni ’60 dei progetti che cavalcheranno l’onda contestatrice degli universitari di Berkeley e fungeranno da preludio al movimento sovversivo dei Sessantottini di tutta Europa: la rivista “Pianeta Fresco”, di tendenza psichedelica e pacifista, spianerà la strada a scrittori e poeti in erba, tra cui un giovane lucano di nome Antonio Infantino. 

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Intanto, più a Sud, l’architettura Paulista subiva un altrettanto “fresco” sbigottimento sotto il peso di un’opera mastodontica: il parallelepipedo in cemento del Museu de Arte di San Paolo (MASP) si erigeva a 8 metri da terra, creando una piazza coperta sottostante che si presterà ad ospitare eventi culturali di ogni tipo. Ma la ventata di novità non si arresta sul piano della concezione morfologica dell’edificio: nel funzionamento e nell’articolazione dello spazio interno, la Bo Bardi immagina il museo non come una vetrina da contemplare, bensì come una realtà multiforme che la gente possa vivere e fare propria, all’insegna dell’egualitarismo e della fiducia nella collettività che sempre contraddistinguono il suo fare architettonico. Questo si traduce nella progettazione non solo di vani espositivi fluidi, ma anche di molteplici spazi che favoriscono l’incontro, il dialogo, lo scambio, ed è dunque così che un auditorium, un teatro e numerosi altri luoghi didattici accolgono la gente di San Paolo e di tutto il mondo in questa sorta di ventre di balena buona. 

Lina Bo Bardi investe quasi un decennio della sua carriera per la realizzazione del MASP, dal ’57 al ’68; intanto Fernanda Pivano si è guadagnata la fama tra Italia e Stati Uniti con la traduzione de “Il grande Gatsby” di F. S. Fitzgerald – la quale surclassa la precedente traduzione di Cesare Giardini del ’36 – , con la prefazione al romanzo “On the road” di J. Kerouac – che riveste un ruolo determinante per l’arrivo dell’opera nelle librerie italiane, nel ‘59, dopo un iniziale rifiuto della casa editrice Mondadori – e con la vittoria del Premio Saint Vincent per il giornalismo, nel ’64. 

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Il 1971 è un anno significativo nel panorama artistico italiano: esce il disco “Non al denaro né all’amore né al cielo” di De André. Il cantautore genovese si ispira alla traduzione dell’antologia di Spoon River, di cui Nanda si occupò nel ’43 – sotto la guida del suo amato maestro Cesare Pavese – per registrare un album che è destinato a diventare una pietra miliare nel mondo musicale del nostro Paese. Nello stesso anno, Lina, questa volta a Rio, dà prova della sua invidiabile versatilità curando la scenografia dell’opera teatrale “Gracias, Señor” di José Celso Martinez Correa.

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Gli anni Settanta sono densi per entrambe: mentre l’architetta si consacra a un progetto che è emblema di animo popolare e forte impegno sociale – il SESC Pompeia di San Paolo –, la letterata vede la sua vita privata sconvolta dalla fine del sodalizio intellettuale e amoroso con Sottsass, ma sotto l’aspetto professionale non patisce alcuna incrinatura, perché un altro riconoscimento non tarda ad arrivare, e infatti le viene consegnato il premio Monselice per la traduzione. 

Alle porte del nuovo decennio, prima di dare inizio ad una proficua stagione architettonica che sarà scandita da realizzazioni importanti quali il Teatro Officina di San Paolo (1984), la Casa Do Benin e il Ristorante Do Coaty a Salvador (1987-88), nonché il piano di recupero per il centro storico sempre a Salvador, Lina Bo Bardi progetta una piccola e raccolta cappella nell’area suburbana di San Paolo: è la Chiesa di Santa Maria dos Anjos, una minuscola aula di preghiera concepita in calcestruzzo mescolato a terra, con una tettoia perimetrale fatta di paglia e di ramoscelli, in ossequio a un’arte povera che è un trionfo di ricchezza morale. 

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In una domenica di agosto del 1980, Nanda si reca da Charles Bukowski nella sua villa di San Pedro in California, e da questo intimo dialogo che apre un varco nella corazza del burbero scrittore nascerà “Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle”. 

La decade successiva segnerà la morte dell’architetta, non senza prima essere, a sua volta, segnata dall’ultimo ambizioso progetto della stessa: il Municipio di San Paolo. Luiza Erundina de Sousa (prima donna e prima politica di sinistra ad essere eletta sindaco di San Paolo) le affida il compito di rinnovare un antico edificio solitamente utilizzato per esposizioni di stampo industriale e agricolo, per eleggerlo nuova sede municipale della città. Trattasi non di superficiale “solidarietà femminile” ma di grande rispetto che le due donne vicendevolmente nutrivano, la sindaca ritenne che la sensibilità della Bo Bardi in merito alle questioni di carattere popolare, e dunque la sua capacità di trasporre in architettura gli ideali socialisti, costituissero l’ottimale materia prima da cui dovesse originarsi il nuovo edificio-simbolo.

Il progetto finì per prevedere non solo una rigenerazione dell’immobile esistente, ma anche una riqualificazione generale dell’area, mediante la costruzione di un nuovo edificio che inglobasse uffici ma anche (e soprattutto) un centro per la collettività cittadina, uno spazio espositivo, bar, ristoranti, un parco giochi per bambini: insomma, il perfetto cocktail “alla Lina”, quasi che, presagendo la sua morte imminente, ella volesse condensare in quest’opera le ricerche di un’intera vita.

Immagine che contiene interni, finestra, edificio

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Ma non si tratta solo di questo: Lina non operò mai esclusivamente in nome del suo credo personale – benché fosse un credo comunitario – ma sempre, nei suoi interventi, riserbò un grande rispetto per l’architettura preesistente con la quale si interfacciava. Sicuramente questa reverenza verso l’antico e il suo valore storico costituiva un retaggio degli studi italiani (romani) che rendono tutti gli architetti che ivi si formano (più o meno) inconsapevoli debitori al patrimonio artistico e culturale della penisola. Ragion per cui, dunque, non avvertiva affatto quel delirio di onnipotenza che facilmente può investire un progettista con una matita in mano, e decise di intervenire silenziosamente nell’edificio realizzato da Domiziano Rossi tra il 1911 e il 1924, limitandosi a trasformarne l’interno, amplificandone la percezione spaziale mediante la rimozione dei pannelli che rivestivano il soffitto e le pareti, per mostrare la nudità architettonica in tutto il suo fascino fatto di legno e laterizi, giocando coi colori e con la luce. 

L’edificio ex novo, invece, condensava così i 45 anni di incessante lavoro carioca: una festosa facciata ricoperta di piante e fiori, un “bosco verticale” che di molto precedette quello di Stefano Boeri a Milano, concepito proprio dalla volontà di ingentilire quello spazio di lavoro e di ricreazione rispetto ai pulsanti ritmi della metropoli tutt’attorno. 

La vecchia Nanda, invece, sarà più longeva, pur mantenendo uno spirito giovanile e intraprendente, continuando a rimuginare trasognata sulla sua America, tutta “sesso, droga e Rock’n’ roll”, da cui si era sempre cautelata, pur vivendo dall’interno quella realtà vivace e promiscua. E da questo ossessionato amore verso la bandiera a stelle e strisce che ormai le aderiva addosso come una seconda pelle, continuerà a nascere letteratura: “Amici scrittori. Quarant’anni di incontri e scoperte con gli autori americani” (1994), “Viaggio americano” (1997), “Altri amici, altri scrittori” (1997), “The beat goes on” (2004). 

Lina muore nel ’92, Nanda nel 2009. La cultura carioca e quella beat aleggiano tra i due continenti, sospese sull’ Atlantico, e come nuvole s’addensano e si distillano in gocce di pioggia capaci di dare ancora stimoli all’architettura e alla letteratura delle nuove generazioni. 

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