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Guida cinematografica per un’architettura umanistica

A cura di Alice Corbo

GUIDA CINEMATOGRAFICA PER UN’ARCHITETTURA UMANISTA
INNUMEREVOLI STUDI, ARTICOLI, SAGGI TRATTANO DI ARCHITETTURA E CINEMA IN SENSO PRETTAMENTE ARCHITETTONICO, REDIGENDO ELENCHI DI FILM GIRATI IN NOTI EDIFICI, DI FILM INCENTRATI SU NOTI ARCHITETTI, DI FILM DAL PARTICOLARE PREGIO SCENOGRAFICO.
QUI DI SEGUITO SI PROPONE, INVECE, UN’OTTICA PIÙ LETTERARIA, PERCHÉ LETTERATURA È INVESTIGAZIONE ANTROPOLOGICA, E ANTROPOLOGIA È ANCHE ARCHITETTURA.


Architettura e cinema, felice quanto comune accostamento.
Nessuna subordinazione, nessuna sopraffazione, un’amena convivenza tra “vicini di casa”: rispettivamente la prima e la settima arte, secondo quella convenzionale classifica stilata originariamente nel 1923 dal poeta italiano Ricciotto Canudo, poi evoluta, ampliata, contestata, ma comunque l’ennesimo elenco ordinato retro-adesivo, per appiccicare etichette al fare umano, e dunque designare una unilateralità che, in realtà, non esiste.


Architettura è cinema.
Architettura è movimento, e il cinema è, per antonomasia, movimento: l’etimologia della parola deriva dal greco antico κίνημα (kìnema), appunto movimento. È, in un certo senso, semanticamente errato adoperare il termine cinema, in quanto è soltanto abbreviazione del vocabolo più appropriato cinematografia, “il complesso delle attività industriali, artistiche, culturali e tecniche che concorrono alla produzione di pellicole cinematografiche”, stando alla descrizione del lemma fornito dalla Treccani.
Sempre risalendo all’ancestrale derivazione greca, cinematografia vuol dire “scrittura del movimento”, una definizione rigorosa e lirica che solo le lingue arcaiche sanno regalarci.
L’architettura è, nell’immaginario collettivo, una cosa fissa, che implica staticità e immobilità, è radicata a terra, ed è per questo che richiede di sormontare una miriade di ostacoli dal suo concepimento al suo compimento. Eppure, come scrive Franco Purini in Comporre architettura (Laterza, 2000): “[…] un edificio non deve presentare necessariamente un limite fisso, ma il suo contorno può vibrare nello spazio, quasi ad annullare qualsiasi confine stabile tra esterno e interno. Un manufatto è qualcosa che si prolunga nell’intorno vivendo del contesto e non tanto nel contesto, come avviene al cagnolino di Giacomo Balla, che fa del suo contorno un margine vivo e ondeggiante […]”.
Oltre alla relazione con l’ambiente attiguo, l’architettura è costantemente in moto per via delle persone che la fruiscono, o per via dell’azione del tempo su di essa, tutti fenomeni che esercitano trasformazioni apparentemente invisibili e intangibili, ma che poi si rendono manifeste, analogamente ai processi chimici e fisici che avvengono in biologia, le cui conseguenze – dirette o indirette – si palesano sulla superficie dei corpi solo a posteriori.


La scenografia di un film è architettura, un film stesso è architettura, poiché prevede un progetto. Non a caso, tutto ciò che necessita di essere preceduto da uno o più schemi progettuali, si dice che è architettato: un’opera letteraria o teatrale, un viaggio, un inganno. Architettura e cinema, di fatti, sono un inganno, poiché pretendono di creare una realtà differente; non tanto l’architettura costruita, quanto quella ideata e disegnata, che rimane impressa su fogli di carta, a salvaguardare ogni possibilità, immobile in un limbo aristotelico tra potenza e atto.
Sebbene la pratica cinematografica sia molto più giovane di quella architettonica, come accade tra un maestro e il suo allievo, l’insegnamento non è mai monodirezionale, ma si tratta sempre di un do ut des, perciò di seguito viene proposta una selezione di pellicole che vuole essere lungi da qualsiasi pretesa di universalità, ma che, come la classificazione delle arti succitata, ben si predispone ad essere evoluta, ampliata, e contestata.


MIRACOLO A MILANO, regia di Vittorio de Sica, 1951
Un film che costò a de Sica un ingente debito economico – per via degli effetti speciali all’avanguardia affidati a tecnici americani – e un peso morale da portarsi dietro, in quanto gran parte della critica non vide di buon occhio la storia narrata, tacciata di celebrare il comunismo e diffondere all’estero un’immagine negativa di un Paese pullulato da senzatetto e abusivi. In realtà, il soggetto è di Cesare Zavattini, in quanto
il film rielabora il romanzo Totò il buono, del ’43, e inizialmente prevedeva un titolo scomodo: I poveri disturbano. In questa favolistica contrapposizione tra buoni e cattivi, miseria e borghesia, interesse popolare e interesse capitalistico che si avvicenda su un fazzoletto di terra in zona Lambrate, si ravvisa un fanciullesco intento pedagogico – o quasi catartico, nell’accezione purificatrice del teatro dei Greci e dei Latini – malcelato dal descrittivismo tipico del Neorealismo, che qui assume toni più edulcorati rispetto alle altre produzioni dello stesso de Sica, o dei contemporanei quali Rossellini o Visconti.
Miracolo a Milano mostra una città in cui l’imponente duomo gotico ancora si ergeva come una cattedrale nel deserto, o meglio, nella campagna, prima che la speculazione edilizia riempisse il tessuto urbano, prima che diventasse la Milano da bere degli anni 80 o la Milano dei grattacieli di Citylife e di Porta Garibaldi, quando non aveva “niente da invidiare” alle borgate romane che intanto Pasolini raccontava in Ragazzi di
vita
.
Una Milano che era già divisa in città dei ricchi e città dei poveri – per citare Bernardo Secchi – e che fa da sfondo ad un’architettura senza architetti, quella che visceralmente lega l’atto edificatorio alla natura dell’uomo: l’autocostruzione. L’architettura vista com e necessaria e funzionale – quella dei poveri –, incontaminata dai canoni estetici di bellezza formale – appannaggio dei ricchi; tuttavia, non è, questa dell’autocostruzione e dell’abusivismo, una tematica legata ad un passato ormai remoto o ad un’eterotopia: l’antropologo Andrea Staid, nel suo libro Abitare illegale: etnografia del vivere ai margini in Occidente (Milieu, 2017) fa un excursus di forme “alternative” di dimorare, definite nell’ambito dell’informalità, per sconfessare il concetto stesso di illegalità, proprio dei cosiddetti Paesi civilizzati, radicati ai postulati di burocrazia, norme, leggi, tasse, e, nella sua indagine anticonvenzionale, c’è anche Milano. Un altro miracolo l’attende?

BLOW-UP, regia di Michelangelo Antonioni, 1966 Antonioni, regista-architetto per eccellenza, in questo lungometraggio in lingua inglese – il primo della trilogia “estera” (Blow-up, Zabriskie point, The passenger) – ambientato a Londra, addensa nello sguardo greve di Thomas (l’attore britannico David Hemmings) tutta l’inquietudine giovanile di un fotografo di moda perennemente insoddisfatto, eccentrico e voluttuoso, che per contrastare l’idiosincrasia verso modelle e aspiranti modelle che lo attorniano, cerca altri stimoli, e si ritrova per puro caso a fotografare, in un parco, quella che pare essere una scena del delitto. Blow-up, in gergo fotografico, significa ingrandire, ingrandire significa avvicinarsi, ma avvicinarsi all’oggetto non necessariamente vuol dire vederci più chiaro, perché subentra la sgranatura dell’immagine, e una macchia dai contorni imprecisi non rappresenta più nulla, è solo uno stimolo per la fantasia, che può indurci, dal profondo dell’inconscio, le più varie suggestioni. Pertanto, dopo una smaniosa ricerca che affanna Thomas tra l’obiettivo della fotocamera e la camera oscura dove sviluppa i suoi rullini, il senso del moto quasi delirante dell’intero film si risolve in una pacatissima quanto densa scena finale: un gruppo di mimi – lo stesso che nella scena iniziale guida spericolatamente un’auto per le vie della metropoli londinese – simula una partita di tennis. Eppure, Thomas è ipnotizzato e segue con gli occhi l’immaginario andirivieni della pallina: quando questa finisce fuori campo, corre a recuperarla, e nel momento in cui la rilancia ai giocatori, capisce di essersi immaginato tutta la vicenda del presunto delitto, zoomando e dunque sfuocando la sua realtà, alterandone perciò la percezione.
Antiteticamente, una pellicola di fine secolo annoverata tra i capolavori del cinema statunitense, si pone come un invito a osservare le cose più da vicino. Una famiglia comune. Più vicino. Un padre attratto da un’adolescente. Più vicino. Una elucubrazione sulla disfatta della società americana. Più vicino. Un’orgiastica commiserazione del dramma dell’esistenza. American Beauty è tutto questo, dalla chiave di lettura più superficiale al nocciolo del suo significato; il film può essere triviale, se guardato col distacco dello spettatore poltroniere, è spiazzante se visto… più da vicino. Il protagonista, Lester Burnham, nel monologo finale fornisce la formula dell’incantesimo: “[…] È difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete.”

ROMA, regia di Federico Fellini, 1972

Una dichiarazione d’amore alla città eterna in un inequivocabile grottesco felliniano, un’onirica e bisunta carrellata di scene della licenziosità romana tutta panem et circensem, in cui l’alto tenore culturale dell’Urbe scende a patti con una grossolana mistificazione, fatta di luminarie a Trastevere, di piatti di pastasciutta, di provinciali commediole. La simbologia di Federico Fellini è personalissima, a tratti autoreferenziale (si pensi ad Amarcord, a 8½), però Roma incanta chiunque, per il semplice fatto che è Roma, e non un’altra città. Paolo Sorrentino, sulla falsariga della produzione felliniana ivi ambientata, realizzerà, nel 2013, La grande bellezza, controverso omaggio a La dolcevita e alla città stessa, decaduta, mondana, cinica, intellettualoide, politicamente scorretta.


UNA GIORNATA PARTICOLARE, regia di Ettore Scola, 1977
Uno dei più lunghi piani-sequenza della storia del cinema l’ha girato Ettore Scola nella Palazzina Federici in Viale XXI Aprile a Roma, set di una giornata particolare per due ragioni: una esterna alla vicenda, legata a un fatto storico – ossia la visita di Adolf Hitler del 6 Maggio 1938 – ed una interna che lega i due protagonisti, quasi sempre soli a dominare incontrastati i 100 minuti di pellicola. Gabriele (Marcello Mastroianni) e
Antonietta (Sophia Loren) non sembrano avere nulla in comune, fuorché la loro solitudine, e lasciano presagire un’intesa amorosa, che si rivela poi soltanto un’affinità elettiva, perché Gabriele è omosessuale. La mastodontica casa convenzionata (dotata di ben 650 alloggi) in cui vivono i personaggi nei loro rispettivi appartamenti, fu progettata dall’architetto Mario de Renzi nel 1931, per l’impresa Elia Federici, nel
quartiere Nomentano; trattasi di un master pièce razionalista, Scola mette in evidenza la vocazione comunitaria dell’intero fabbricato: in positivo – la biancheria stesa nella terrazza collettiva – e in negativo – gli sguardi indiscreti di vicini e portinai – per portare in primo piano una sorta di post-realismo più psicologico eppure intriso di Storia, per contestualizzare il dramma sociale vissuto da tutti quegli sfrattati
stipati nei casermoni periferici e semiperiferici.

Seconda Parte

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