A cura di Alice Corbo
Dall’impossibilità di svolgere un lavoro di analisi urbana nell’ambito del corso di Teoria presso la facoltà di architettura di Porto, nasce una indagine architettonica attraverso la finestra. Un’occasione di scoperta e di racconto, un esercizio di critica velleitaria, una scappatoia dalla banalità del quotidiano.
Un giorno, a scuola, la professoressa di letteratura italiana entrò in classe e ci disse: “Provate a raccontare la favola di Cappuccetto rosso per venti minuti”.
Il principio è, sostanzialmente, lo stesso.
IL PROFILO STRADALE
Un muro perimetrale alto una ventina di metri, presumibilmente granitico, segue il tracciato di una spezzata che governa, disarticolandola, la linea interna del marciapiede.
Esso, tuttavia, si interrompe in certi punti, per lasciar protuberare alcune superfetazioni: la curva dell’ingresso al centro commerciale Shopping Cidade do Porto, un prisma a base triangolare che sbuca fuori con manifesti pubblicitari sulle due facce esposte, l’ingresso – più piccolo – alla torre di uffici, un oggetto timidamente postmodernista, con il suo volume semicilindrico appoggiato su un profilo che ricorda vagamente un tempio maya sezionato e scalato di dimensioni. Una maglia di tasselli dalla superficie specchiata irrompe nella stoica fascia granitica, adagiandosi sulle suddette superfetazioni, riflettendo sprazzi della strada prospiciente in ogni pannello, formando così un vivace quadro di rappresentazioni sconnesse tra loro, perché ogni quadrato –- soprattutto nella facciata convessa – ha una angolazione diversa, e così l’immagine restituita all’occhio di un qualsiasi spettatore situato al di qua di rua Gonçalo Sampaio, alla mia quota di cinque piani s.l.a. (sul livello d’asfalto), sembra il pattern delle videocamere di sorveglianza nella cabina della security di un esercizio commerciale.
Anche la torre degli uffici, ruotata con inclinazione diversa rispetto al perimetro del muro entro cui è incassata, è un’architettura fatta di addizione: l’accostamento plastico di piani evoca lontanamente Casa Rietveld Schröder, ma i colori sono decisamente desaturati, i materiali ormai corrosi e scrostati dalla battente pioggia portuense che logora tutte le superfici. La facciata della torre più orientata in direzione della mia finestra è scandita verticalmente in tre fasce: le due laterali sono più strette, delimitate da alti pilastri rivestiti di pannelli bianchi di cui non riesco a indovinarne il materiale, che arrivano fino alla sommità dell’edificio e in cima si uniscono per mezzo di un architrave che non denuncia alcuna discontinuità tra essi; si profila così una U rovesciata, ma basta osservare l’altro angolo per scoprire che in realtà tale sistema guadagna tridimensionalità, e la U rovesciata diventa una struttura scatolare che verosimilmente rinforza ogni angolo della torre, estrudendosi rispetto alla fascia centrale, che invece rimane leggermente arretrata, planare e liscia per tutta la sua estensione, cesellata dagli stessi pannelli-specchio delle protuberanze sottostanti poc’anzi descritte.
Nella porzione liminare tra il corpo più basso del centro commerciale e lo sviluppo verticale della torre, accadono tante, troppe cose, e l’architettura si fa congestionata, convulsa, confusa nella profusione disordinata di elementi: una sorta di bow-window semicircolare s’innesta con una copertura a semi-cono, cinto da scale che discendono su due lati, con una balaustra grigia dal disegno pretenziosamente neoclassico, ma di cui non riesco a individuare il piano d’arrivo, dunque non oso immaginare dove conducano queste bislacche e pompose gradinate. Ad intensificare la completa arbitrarietà architettonica di questa porzione di edificio, contribuiscono significativamente le macchie rosso ruggine che padroneggiano nefastamente un intonaco che un tempo doveva essere di un bianco brillante, e che funge da cesura – sebbene i piani siano divergenti – tra il muro granitico e la palette grigio-azzurra predominante della torre.
Tutto ciò accade a sinistra della curva descritta dall’ingresso del centro commerciale, ma anche a destra si presenta una situazione analoga: un’ulteriore torre, quella dell’Hotel Fenix, si trova giustamente in competizione con l’altra. È di poco più bassa, tutt’altro che snella nonostante la forte verticalità conferitale dal disegno delle facciate, la pianta è orientata in maniera specchiata, dimodoché le due torri si rivolgano alla strada con un senso di apertura, disponendosi su due direttrici atte a formare un ampio angolo che vuole risucchiare l’intorno, in un certo senso, ma ciò non è percepibile ad altezza uomo, poiché la ridotta sezione stradale non consente di evincere questo stratagemma urbanistico che invita sommessamente il cittadino ad appropinquarsi all’entrata del centro commerciale.
Un ingresso secondario alla torre dell’hotel è ricavato da una sottrazione volumica alla massa soprastante: mentre tutto il complesso finora esaminato è un crescendo di elementi incastrati o accostati, ora una leggera rotazione al livello strada scava il muro granitico, contrapponendosi quasi simmetricamente alla protuberanza prismatica coi cartelloni pubblicitari, generando così un antagonismo che, di nuovo, è funzionale a incorniciare l’ingresso del centro commerciale.
Ancora più a destra, la chiara parete in granito cessa e, questa volta, la torre alberghiera avanza, raggiungendo il fronte stradale, e non rimanendo incassata come avviene per la torre di sinistra; essa si emancipa, distrugge il contenimento del muro granitico e si afferma, affacciandosi direttamente sul marciapiede, rivendicando il suo ruolo attivo nella scena urbana, rinunciando dunque ad esserne mero fondale.
Tutto questo discorso è espresso mediante lo stesso linguaggio, in quanto il congiunto di edifici è accomunato dal legante del muro granitico; spostandoci all’estrema sinistra, invece, spingendoci fin dove il mio occhio può giungere – senza che io rischi di precipitare giù dalla finestra – attraversando la strada che si ramifica da rua Gonçalo Sampaio per incunearsi dietro la torre degli uffici, ecco il Mercado Bom Sucesso, con il suo alto portico ondulato, laico pronao di un luogo di culto contemporaneo: la cucina.
Esso è un boomerang che, con la sua planimetria arrotondata, ingentilisce l’incrocio delle due strade, altrimenti spigoloso e occlusivo. Quattro piani di vetrate formano una sorta di terrazzamento appena accennato, e l’inclinazione di questa porzione di prospetto non disturba l’ortogonale severità degli edifici tutt’attorno ma, anzi, svolge la stessa funzione della curva in pianta: ingentilisce.
A fare da sfondo, lo skyline della retrostante rua Julio Dinis, con i suoi palazzoni dai colori pastello e dalle altimetrie tutte uguali, cosicché il confine col cielo finisce per essere una linea pressoché retta, netta, di separazione tra terreno e ultraterreno.
IL DISEGNO URBANO PLANIMETRICO
Rua Gonçalo Sampaio è una delle larghe strisce d’asfalto generatesi dal movimento centrifugo della Rotunda de Boavista; la ridotta porzione che il mio sguardo da quassù riesce ad abbracciarne le fa acquisire una dimensione familiare, più da strada di quartiere che da arteria cittadina, poiché incorniciata da tante piccole e grandi attività: l’imponente mercato, il discutibile centro commerciale, l’albergo a quattro stelle, ma anche la bottega di frutta e verdura locale, il piccolo negozio di riparazioni, la panetteria di fiducia, l’antica osteria demodé dove ancora cucinano i piatti di una volta.
Subito sotto di me, proprio in linea d’asse con la mia finestra, la stretta rua de Agramonte s’inserisce nella via principale, e poiché non si vede la strada arrivare, ma la si vede soltanto sbucare, l’incrocio suscita in me le più svariate suggestioni: delta di un fiume d’asfalto, utero partoriente autovetture, cilindro d’un mago che estrae conigli dai cerchi in lega.
Da un lato e dall’altro di questo immissario urbano, il grigio smorto del marciapiede continua indisturbato, ora contrastato da un filare di colorati veicoli parcheggiati, ora mitigato dal verde di un’aiuola. Dall’altro lato della strada, però, il marciapiede tenta di caratterizzarsi: una fantasia geometrica, lungi da ogni libera interpretazione, si stende sotto ai piedi dei passanti, lasciandoli completamente indifferenti al motivo ornamentale che calpestano distrattamente. Difatti, questo appare come una malriuscita rivisitazione dei marciapiedi del centro città – in cui mattonelle chiare e scure si alternano in un disegno sobrio della pavimentazione – e si erge a emblema incontrastato delle velleità di un quartiere residenziale privo di qualsiasi traccia del patrimonio storico cittadino.
LA STRADA PANDEMICA
Dopo aver osservato la via sottostante per coglierne e descriverne particolari sui quali, in questi mesi di permanenza a Porto, non mi ero mai soffermata – limitandomi sempre a lanciare fugaci occhiate attraverso il vetro solo per verificare le condizioni meteo o per accertarmi che nessuno, dagli edifici di fronte, possa spiarmi mentre mi cambio i vestiti – realizzo che non ci sarà molto da raccontare in merito a ciò che succede laggiù. Ho spostato la scrivania, l’ho posizionata proprio sotto al bancale della finestra, per catalizzare subito il processo descrittivo-narrativo dall’occhio alle mani che ticchettano sulla tastiera, ma poi d’un tratto scopro la vanità di questo stratagemma: ai tempi di una pandemia mondiale, in tutte le strade accadono le stesse cose, o non accade nulla.
Louis Kahn scriveva che la strada è una stanza a cielo aperto, Bruno Zevi la intendeva come il corridoio di una casa, deducendone dunque che la pianificazione urbanistica non è altro che una progettazione a più grande scala; in questo largo corridoio solitamente affollato, ora ogni traccia di vita è scomparsa, e allora acquisisce maggior significato la considerazione di Kahn: “In a city the street must be supreme. It is the first institution of the city. The street is a room by agreement, a community room, the walls of which belong to the donors, dedicated to the city for common use. Its ceiling is the sky. Today, streets are disinterested movements not at all belonging to the houses that front them. So, you have no streets. You have roads, but you have no streets.”.
La strada si è smaterializzata, la stanza a cielo aperto è diventata solo una galleria da attraversare rapidamente, da un capo all’altro, puntando verso la luce in fondo al tunnel. Non c’è viaggio, ma solo meta; la meta, la luce, non è che l’infima soddisfazione di un bisogno animale: mangiare; e così si esce di casa solo per andare a caccia. Tutto il resto diviene secondario, il regime della paura annulla il superfluo, si instaurano nuove gerarchie, e l’urgenza di architettura rientra nel non-necessario: gli edifici si fanno opalescenti, lattiginosi, si amalgamano con la patina di terrore che avvolge tutte le cose, come un cellophane sui mobili di una casa abbandonata.
E dunque gli uomini per strada sono come cavalli ad un palio, addestrati a correre senza possibilità di volgere lo sguardo altrove, e gareggiano solo in nome dei loro istinti più bassi.
Epocale e apocalittico sono due parole pressoché omofone, sebbene di etimologia diversa, e sto scegliendo quale dei due aggettivi si addica meglio alla situazione. Nel frattempo che provo a capirlo, penso che forse sia il caso di comprare delle mascherine, ma non restano che quelle di Ensor o, alla peggio, quelle dello scorso Carnevale. Così continuo a mescere la mia pozione antivirale nel pentolone cacofonico delle parole: isolamento e solitudine. Nella solitudine ci sguazzo da tutta la vita, nell’ isolamento sicuramente meno.
Dalla mia gabbia di cemento getto un’altra speranzosa occhiata fuori: non è la peste nera, ma qualcosa di molto peggio. Questa pandemia è rarefatta, esala un odore acre, sudorazione fredda di cortisolo e adrenalina, che si posa su tutte le superfici, corrodendole sicuramente più di quanto potessero farlo le forti piogge che si abbattevano sulla città nei mesi scorsi. E così gli uomini s’incurvano, gattonano, regrediscono ad uno stadio precedente a quello di homo erectus, e senza imbracciare armi si fanno la guerra, che non è ancestrale lotta corpo a corpo ma avanguardistica battaglia mediatica. In questa distopica dittatura della diffidenza, non si può scrivere di architettura. La strada diventa solo una striscia di Gaza minata, tra la propria abitazione e la sussistenza: ogni mina è una componente della nostra perduta normalità, che fa rima con superfluità. Ma questa situazione ci costringe inevitabilmente a chiederci: cosa è, dunque, davvero superfluo?